lunedì 7 novembre 2016

Milvia, un racconto










1

C’è.  Milvia. Una volta. Due volte. Avvoltola le acciughe in uno stress di giornale,  senza speranza di sfogliarsi, nel traffico - granito senza tregua. L’ora smatura sul santino appeso a schermo del contagiri del sangue.  Lì fuori è tempo di novembre. Dice fra sé e l’anice << non può, non si può>> e lo versa nel caffè. C’è solo lei adesso, sotto l’empireo di travi rose; lei, il caffè, brevemente: entra Micio Moro. Moro, il suo cognome da bambina. Occhi di legno, elastici al vento, e nessuno che dentro vi abbia inciso un versetto. Milvia. Si cerca nella cerniera, la riallaccia, cede. Non sa cucire. Hai voglia di cantare. No. Hai voglia di leve, piaghe nuove. Ci sono diamanti, cercano il lume del giorno che scade, diamanti di vetro incantevoli. Anzi è il latte che scade, ma nel frigo non c’è molto altro.  Un uovo sodo di una settimana, il caffè avanzato in una boccetta di succo di frutta mezza vuota, una fetta di torta: l’aveva portata qualcuno da un anniversario. Non ricorda.  Meglio gettare, in ordine sparso: l’insalata – che la compra a fare? Non la mangia nessuno. Se ne sta lì nel cassetto, invecchia, ospita piccoli mondi, spore di bellezza che resistono. L’uovo lo mangio a pranzo, domani -  poi la scatoletta di pollo del gatto amuuffita – Formaggio e francia getta.. La francia… fossi ancora di 40 anni, una luna appena scoperta… girare per i duomi  ele strade in cerca di elemosine celstiali. Siede, scrive il da farsi. Lista della spesa al grande magazzino delle idee. Ne zampillano sempre rare. Appunti vari di un fremito ai margini, né amori né limite, certo ne ho avuti - incide - poi m’annoiava ogni cosa e di tutto m’infuocava quel breve andare da una vita all’altra: ripiegavo i loro sorrisi di lino, mi frangevo in specchi da rasatura, piccini, presi in chi sa quale bazar. Qui è un viavai d’affanni, il carbone dà ancora da mangiare, a noi, agli altri. Pirati. Naufraghi fra le porte del tempo,  usurai  A chi sto parlando? Stirare. Anzi, prima, chiamare sua madre al telefono. Strappa dal sonno la cornetta ingiallita, compone il numero a dieci cifre. Squilla contro la noia, fra gli altri convenevoli per non sapersi, variamente policromi, ogni tonalità del grigio. sei, sette squilli a vuoto e  riaggancia. Se non Parigi, magari, Palermo… ma a volte un colore ti sembra un altro.

2

Michele – 35 anni. Giustino – 28 Frida – 32

Michele nella sua ghirba - a riparo o per parare? Ha smesso di pormi certe domande. Giustino, fisioterapista della grande azienda del siamo tutti parenti,  in fondo in fondo. L’altra sboccia ogni autunno. triennale in archeologia e torte al formaggio, si è trasferita, da poco. Sai cos’è l’isola di White? Lo sai, Milvia? Dovrebbe essere il suo tempo migliore, madre-intervallo, figlia ad honorem. Sorella. Zia di mocciosi a cui insegnare le regole del grande domino. Di domenica. Ma domani è lunedì. Mi toccherà lavorare sino ai capelli corti, come si usa, non più tinti: michele ha 35 anni. Se ne va in lungaggini, sipari, lì, nella cesta dove a volte è serpe a volte grano verdissimo da stipare per le feste dei santi.

Se non Palermo, non so, con un po’ di coda.

3

Rientra Nero. Nome inusuale, per lo meno. Se fosse un romanzo. Figlio di Avierescelto ed Ernesta. Morti l’uno a 46, l’altra a 70. Piove, sul circolo non c’era un’anima. Apre lo stipo dove si tengono i biscotti, ne prende uno, si sgancia la protesi dentale, accende il vecchio re che già era sul canale di cronaca sportiva. Appoggia il braccio sinistro sul cuscino di vellutino,continua a tacere. Avrebbe voluto fare la scrittrice, la dottoressa in qualche ramo della psicologia Avrebbe voluto imparare a parlare il francese, lo spagnolo. Se la cava con l’inglese. Milva conosceva il greco, il latino. Era pronta a consigliarti il farmaco giusto da prendere in caso di. Ti faceva le punture. Non usava friggere. E condiva con poco olio i pomodori che da ragazza mangiava, prendendoli dalle cassette in cortile, senza sciacquarli, a morsi. Si può quasi dire che amasse i pomodori. Padre svizzero per acquisizione. Madre sarta paralizzata in una tutta ora rosa, ora blu scuro, con la difficoltà di indossare delle pantofole adatte alla forma che l’artrite reumatoide le aveva dato a tutti gli arti. Giovannina. Poco altro amava, Milvia, come i pomodori.

4

Micio Moro deve essere portato dal veterinario per un richiamo di non so che vaccino. Ho sempre “avuto” gatti, fin da ragazza. Avuto non è il verbo appropriato. Perciò tace. Spesso. E’ stato Nero a portarlo a casa. Siamese, nero come un corvo in gennaio. Era davanti al portone. Magro, zampettante, liscio come una buccia di pesca. Non lo accarezzo, mai, anzi: quasi mai. Gli do le sue crocchette, talvolta una scatoletta di non so che, qualche avanzo. Non amo la compagnia. Mangia fuori. Come io sto fuori. Tranne dopo la visita dal veterinario, come a stemperare un torto fattogli. Sto fuori di me, sto. Fuori dal torneo, per il tempo tra l’apnea notturna e la tivvù prima di coricarmi di nuovo. La lascio accesa fino a notte inoltrata. Quasi non la guardo. L’unica compagnia che non mi dà pesi. La notte, mentre il resto della casa affonda le radici in sogni che non racconta. O che non ha. Gliceria, il nome della gatta di quando abitavo nella casa dirimpetto a quella attuale. Mi accompagnava a scuola. Mi aspettava fino a che ne uscissi. Teneva lontani i sorci dal granaio, lì erano sistemate alcune brande per accogliere il sonno di qualche zio di fuoriporta. I miei riposini pomeridiani, con l’indice in un libro e la matita per aggiustarmi i capelli in una coda dissoluta. La finestra tonda pareva l'oblò di una nave, una di quelle sui libri di scuola. Avrei voluto imbarcarmi. Essere una polena. Una vela.

Quando morì sua zia Maria, quei lettini di vecchia paglia furono usati per  cinque dei nove cugini in età scalare dai 12 ai 3 anni. Dormivano avviticchiati a quel poco di infanzia che gli sarebbe rimasta, di lì a poco. Da allora, da quando furono affidati, chi a un parente, chi a un istituto, chi a un fabbro mastro o un pastore,di quattro animelle, è il suo mondo di arche perdute. Qui nulla può sfiorare i miei capelli. Ma prese i pidocchi e la rasarono a zero. Quando i capelli ricrebbero, da fulva che era, diventò bionda. Come la cenere di incenso. Ora usa una tintura nera e li porta mossi come a causa di un vento leggero, costante. Come davanti a un ventilatore su media velocità. Il solaio è ancora il suo isolotto. Invaso dalle rondini. Sede di misteriosi accerchiamenti di fate megere. Inviti di streghe nel sabato pomeriggio, quando il cielo è un vertice di grigio e sta per scendere l'acqua dorata del silenzio. Ha questo colore il silenzio, a volte. Piomba dalle volte, si stende come un mando di pensiero sui viali.  Viene spesso a cercarla un albatro maestoso. Sodale di chilometri vagati fianco a fianco. Lo scheletro celeste di una patria irraggiungibile. Un satiro. O un maestro di pietra che muta il sangue delle genti in argento turchese, questo è un altro colore di cui varrebbe la pena di parlare. Ma non sa spiegarsi stavolta, valica con gli occhi un'ombra sul cortile, posa la lenza dello sguardo sulla vecchia gabbia delle oche ora adibitra a fioriera. Si stacca un limone. Batte sul rullante di porfido sereno, limpido. Ecco. Un argento turchese. Il sangue. Non era poi così difficile.

5

Ho provato decine e decine di volte a scrivere racconti: se ne andavano su agente datate, le copertine in cartone o finto cuoio. Non ne ho più una. E non ho più lancette che seguano il ritmo dei miei polsi. i versi di ragazza. Non mi chiedo dove siano, ho cambiato borse, case, albe in vespri, ma che ne è delle clessidre della piccola Milvia? 1 metro e 50, abbondanti. Belle gambe di matrioska, borsa di studio e medaglia d’oro del ministero dell’istruzione. Non amavo indossare nessun tipo di cappello. Eppure ricordo un sonetto in cui dicevo di un cappello che se ne va col vento, in agosto. Rimango col capo scoperto a raccogliere fra i capelli le stelle. Ero giovane. Avevo settant’anni. Un diploma di liceo classico appena fiorito nella gelata della morte di un caro amico che abitava in una masseria di un paese vicino. Fulvio. Anche la luce può stancarsi, fermarsi all’angolo di una galassia, riposare le ossa e le illusioni. Se posso fare uno strano raffronto. Nessuno che possa sconfiggerti eccetto l’idea di te, amica di troppi fantasmi.

L’orologio segna le 5, quindi, sono le 6.
Amarsi come fanno gli angeli: dopo l’amplesso perdono le piume. Devono aspettare primavera che ricrescano. Ma almeno per il tempo in cui diventano mortali hanno il ricordo di un gusto superiore, di una lentissima sequenza di cerchi indefiniti, hanno le mani ancora pulite, come non si fossero mai tolti i guanti - trovarne un paio della misura giusta per me è sempre stato difficile - odio il volante gelato. La brina sui vetri. Il marasma delle scuole la mattina prima di arrivare al caffè con le colleghe. Odio queste piume perenni.  Vorrei dire a Nero che è finita. Vorrei se ne andasse. Che cercasse la sua di strada. Ma non ho la forza di lasciarlo andare. Resta qui, puntellato al duttile sfondo di vita provinciale, mangia. beve. Dorme. Dormicchia. Apre la fontana quando va al bagno, per far ripartire l’autoclave, c’è poca pressione. Un po’ ovunque. Qui. Regine di picche, fanti di cuori.

6

E poi sto bene, in fondo. Non mi mancano rughe. Pieghe del respiro. Mutamenti dell’animo ne ho, abbondano, scrivo con il pennino della mente cento versi d’amore al giorno, versi di pece, sulla gloria mortale delle piccole cose che mi abitano o mi spopolano. Soffiando, come ho insegnato a Michele, i serpentelli fuori dalla bocca, lentamente, riempiendo completamente i polmoni. Michele è il suo secondo nome, separato dal primo da una virgola. Si fa leggera l’ansia.  Soffio. Amplifico il gesto. Sto bene per ore, giorni, canticchio vecchie canzoni di cui ho scordato le parole, le invento, le azzoppo, per giorni, mesi. Ma, si sa, il tempo è come l’orologio della mia cucina. Mia. Perché mia. Passa in fretta un mese e dieci minuti in attesa che si liberi la sedia all’ufficio postale scoccano frecce contro la mia armatura di seta. Allora provo a cantare una canzone, i denti stretti: stavolta le parole sono quelle giuste. Rimango in piedi mentre altra gente è entrata nella stanza, fuori una volta sfilava il corteo della Candelora. La casa dalle mura che cadono. Mio padre non mi ha mai dato uno schiaffo. Io non gli ho mai portato le pantofole, quando ritornava dalla fabbrica di nastri magici. Mamma cuciva a me e mia sorella i vestiti per le nostre due bambole di pezza. Avevo una esigua collezione di libri per ragazzi, il primo che ho letto: i tre moschettieri. 
L’orologio segna le 7. Dovrei preparare la cena ma la cena non ha voglia di essere preparata.  Panini. Se faccio in tempo. Un po’ di pizza casareccia, se Edeva ne ha ancora. Qualche oliva. Io mi scaldo un po’ di latte. Ah, l’ho gettato, era scaduto, Spero di ricordarmene.
Metto il ferro sul ripiano gommato. Spengo la luce.

7

Qui siamo adusi a un’esistenza superficiale, la vita scandita dagli orologi da polso, sintonizzati sulla partita della domenica della squadra di calcio giovanile, sull’angelus, sull’ambulante che ogni giovedì porta la gazzosa e bibite varie. Qualcuno si impegna nel coro pastorale, altri distribuiscono viveri a chi ne necessità. Una volta al mese. C’è chi vende il carbone. C’è chi ne compra. Chi lo tira fuori dalla cava, chi preferisce il propano, il petrolio, la legna di faggio, per cuocere le castagne nella brace. Chi non può permettersi di sentire freddo. Qui ho anche avuto due primi amori. Uno riccio, anima dinoccolata, l’altro mingherlino con il cuore di fieno. Soldatini di piombo, angeli dalla coda puntuta. Il primo fuggito, per errore, in una città di università e biscotti alla strega, il secondo primo amore, nero di capelli, lisci, sistemati con una riga sul lato sinistro, di nome Nero, è nel tinello a mettere croci di sul suo libro nero dei cavalli che non vincono mai. Più croci indicano da quanto un cavallo non vince. Nero. Nero. Nero, come il mio abito di rito. Cucito da mia madre, sbrindellato da tre parti. Tre tentativi di infinito. Vestirò di bianco il giorno del mio funerale. Come nel libro dei fiori in cui si dice che una rosa bianca sta a significare silenzio. Silenzio. Finalmente. Silenzio. Ma non desidero la morte. Io voglio il bianco… anche il nome mi piacerebbe cambiarlo. Mi piacerebbe che mi chiamassero Rosa.

Perché qui fuori urla lo sciacallo, perché fra due margini di intercettazione io sono quella che tende il filo di seta della preghiera. Perché vorrei che tutti questi perché fossero domande a cui, per ogni eventualità, esistono almeno due risposte. Una giusta.  Una sbagliata. Poter scegliere, io, sempre, quella giusta: per me. Sai cos’è l’isola di White? Lo sai, Rosa?

8

Sento dentro che quello non è il posto giusto per le orchidee, girano da un davanzale all’altro, sopravvivono solo gli steli. So che dovrei comprare una nuova moka: quella vecchia ha il manico che viene via. Ci sarebbe bisogno di ridipingere la facciata, sembra la pancia di un salmone che annaspa, vinta da una festa d’edera verso nord, cotta dal sole verso levante, il vento ha scardinato un bel po’ di metri di grondaia, la scegliemmo marrone, ma il sole ha stinto anche quelle. La canna fumaria del camino che non usiamo mai è attraversata da un cilindro d’acciaio. L’ultimo inverno che arrostimmo della carne sulla brace il comignolo prese fuoco, venne gente. Bussarono << va a fuoco il comignolo >> ma presto si spense, non l’abbiamo più acceso il fuoco, da allora. Per tutta la lunghezza che prende una parete intera, dal terrazzo fino al tetto, la canna fumaria andrebbe stuccata e poi pitturata. Da quel giorno di 10, 12 inverni fa, ho anche deciso che  non avrei più mangiato carne.

Quest’anno non prepareremo il cenone di Natale. No. Mia sorella, io. Mi piacerebbe per una volta essere servita. Anche Annibala la pensa allo stesso modo. Ristorante, quindi o focacce assortite, pizza al pomodoro. A Natale, a Capodanno. Magari anche la prossima Pasqua. Vino ne berrò, stavolta, per girare sul carosello, non da provarne il vizio, solo giungere al livello medio della letizia di chiunque e di nessuno. La scritta sagace su un muro che risale a secoli passati: acerba e muta come le mani dei pittori sul lungomare nei miei vagabondaggi, in cerca di deserti, basiliche trafitte dal sole attraverso un solaio a pezzi. Approssimata, stilizzata, figlia di me sola. Madre dei miei figli. Figli di me sola, per ora. E vedo nello specchio delle ore questa casalinga discinta, con due puntini tatuati sul seno, i capelli che scendono nella steppa del tempo, anneriscono nel fumo d’orzata. La stufa a carbone. Le mani di Nero adagiate sulla carta dell’emisfero in cui mi tocca abituarmi a non guardare oltre la superficie d’argento. negli occhi il blu. I miei occhi neri, Milvia.










sabato 29 ottobre 2016

su un dono d’acque e santuari




anni luce
fra una duna
e l’altra
del
vano caldaia
scavo d’ansie. vanno corsieri
fra nuvoli e caterve.

spingono il muscolo 
del passo
due occhi cantati per forre e dòmini
celesti. colori che mutano in pugni di artico, testa di
moro occhi che hai…
va’ vecchio frenatore o
battello. e va. basta poco. uno
per mille e patirsi mani alle soglie
un po’ meno.
va fra baleni, nugoli
piccolo naviglio di terra azzurra
 doloroso
___



                                                                     "irradicarsi"
                                                                              radicarsi con spasmo,
                                                   che tutto l’oro e il nero
                                                                               vanno
                                                                                        da un mito
                                                                                                   versato
                                                                                  su un dono d’acque
                                                              e santuari...
             la noia la folla l’amnesia
  l’abbandono


sfiorire
nella clessidra di un profumo
entro ritmi di contese vibrate
o farsi veglia a un’ora di angelus ciarlieri
le braccia di terra legnose
frutto al corso degli scali teorici
ma il miele termina s’avvia una primula di celesta
scavare la luce greggia
tristezza di cuore che figlia.
amore roso dei suoi occhi
d’altare.



                                                              citarti                                                      
                                               di un accento                                                      
di dedalo                               
stanco della mia boria d’erbastra                                               
denso a                                                                                                 
ridestarti entro i margini di 
un lunario, ne tremai, vidi il vizio 
                 la cruna del vino:                                                                                                 
 m’infransi su                                                                  
 un morso di valli e                                                                                                          
                                 di velari
                                                                                                pesa fra gli
acri del giorno.
lasciarsi sopra istanti grano al grano
                                     armonium fra i vinchi
 che s’innervano.
                                anche l'erba 
                                                        cantava sulla 
                                                                               tua bocca, anche
                                       una mela che 
           ogni giorno ci
sfamava, e s'affilava sul filo
una rima, una 
                                scala.  i miei versi
sono succo di mela.